La storia delle portatrici carniche
di Margherita Buccilli e Martina Da Ros
In pieno periodo estivo, può darsi che una destinazione vacanziera sia il Friuli Venezia Giulia, regione nota soprattutto per alcune località turistiche marittime e per la Trieste mitteleruopea frequentata anche da Umberto Saba, Italo Svevo e James Joyce.
Purtroppo, la regione è stata anche teatro di scontri sanguinosi e trincee logoranti durante la Prima Guerra Mondiale e proprio per questo non è raro imbattersi in musei che ne raccontano le battaglie e in sacrari dove riposano i soldati e le infermiere che hanno prestato servizio (tra i più noti quello Militare di Redipuglia dove riposa Margherita Kaiser Parodi e l’ossario di Timau).
E proprio su quest’ultima località vorremmo soffermarci; sì, perché Timau è il luogo di origine di Maria Plozner Mentil, la più famosa portatrice carnica, unica donna italiana a cui è stata intitolata una caserma militare (si trova a Paluzza che è anche il comune in cui si trova la frazione di Timau). Non solo: in rappresentanza di tutte le portatrici le è stata anche conferita la medaglia d’oro al valore militare nel 1997 dall’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nonostante la donna fosse già deceduta nel 1916, mentre stava lavorando come portatrice, dopo essere stata colpita da un cecchino austriaco.
A proposito, ma voi lo sapevate che la parola cecchino è stata coniata nel periodo dell’Irredentismo e della Prima Guerra Mondiale e indicava i soldati austriaci di Cecco Beppe, il soprannome dispregiativo con cui era chiamato l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe?!

Chi erano le portatrici carniche?
Spesso accade che le donne vengano rimosse dalla storia, come se non siano mai esistite o non abbiano preso parte agli svolgimenti storici, rimanendo passive alla vita nei loro limitati ambienti domestici. Le portatrici carniche sono state le donne che hanno portato munizioni e viveri ai soldati italiani impegnati sul fronte carnico, in Carnia, una regione montuosa situata nella parte nord-occidentale della provincia di Udine. Ogni giorno percorrevano più di 1000 m di dislivello, trasportavano fino a 40kg nelle caratteristiche gerle e indossavano le loro scarpets, tipiche della tradizione friulana, – quelle oggi note, appunto, con il nome di Friulane e che negli ultimi anni hanno avuto un fortunato revival di moda -calzature che hanno anche permesso ad alcuni soldati italiani di muoversi in silenzio senza essere avvistati dai nemici. Le portatrici erano soprattutto di etnia e lingua friulana ma alcune, come Plozner Mentil, erano tedescofone e altre slovenofone. La loro storia, seppur romanzata, è raccontata nel romanzo “Fiore di Roccia” di Ilaria Tuti, di cui vi consigliamo la lettura. Alla fine del libro vi è anche una bibliografia sulle fonti storiche dell’argomento.

Friulano, sloveno, tedesco… ma che vuol dire?
Il Friuli Venezia Giulia, seppur abitato da “soli” 1,2 milioni di abitanti, presenta una certa eterogeneità.
A livello storico è interessante notare che l’areale del Nord Est italiano-istriano era già abitato in epoca preromana dagli Euganei, Veneti, Carni e Istri. Con l’unificazione politica di Ottaviano Augusto, la zona venne registrata come Regio X Venetia et Histria (odierno Triveneto, provincia di Brescia e gran parte dell’Istria). Nel VI secolo d.C., con l’arrivo dei Longobardi, si creò un ducato con capitale l’odierna Cividale del Friuli (Civitas Forum Iulii). Il Friuli, chiamato così per estensione già in epoca medievale, apparterrà alla Serenissima fino alla sua caduta e poi al Regno d’Italia. Per quanto riguarda la Venezia Giulia, invece, sebbene vi sia una partenza comune vi è un percorso diverso: è stata infatti annessa all’Italia solo dopo la Prima Guerra Mondiale (all’epoca province di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, le ultime due perse dopo la Seconda Guerra Mondiale e diventate parte dell’allora Jugoslavia e oggi Croazia).
Ecco perché andrebbe distinto a livello linguistico il Friuli (parte della provincia di Pordenone e la provincia di Udine) dal Venezia Giulia (Gorizia e Trieste). Nel primo è riconosciuta e protetta la lingua friulana (legge 482/1999, articolo 2), nel secondo è sì parlata e riconosciuta la lingua friulana ma quella storica è il cosiddetto “veneto coloniale”, ovvero una variante del dialetto veneto importato ai tempi della supremazia di Venezia. Sono inoltre presenti, su entrambi i territori, minoranze storiche tedescofone e slovenofone (le cui lingue sono protette dalle leggi, nel primo caso, legge regionale 20/2009 e nel secondo legge regionale 26/2007).
Per simpatia ricordiamo i comuni di Tarvisio, Malborghetto Valbruna e Pontebba (tutti in provincia di Udine) perché comuni quadrilingui: oltre all’italiano sono infatti riconosciuti e parlati l’italiano, il friulano, il tedesco e lo sloveno.

E la Bisiacaria?
Per complicare ancora di più le cose, accenniamo all’esistenza di anche una zona geografico-linguistica, denominata appunto Bisiacaria, in Venezia Giulia, riconoscibile per l’uso del dialetto bisiaco, un dialetto veneto con forti contaminazioni friulane e slovene. I suoi comuni si trovano in provincia di Gorizia, la città più grande è Monfalcone e il territorio è delimitabile sui tre lati dal fiume Isonzo (teatro di guerra e sanguinose battaglie), il Golfo di Panzano e il limite occidentale dell’altopiano Carsico.
Insomma, è chiaro quindi che non è proprio possibile, riferendosi a questa regione, di “Friúli”, ed è ancora più comprensibile come mai i triestini vadano su tutte le furie quando vengono individuati come “friulani”.
La ricchezza della regione Friuli-Venezia Giulia, con le varietà della sua storia, lingua e tradizioni è tutta da scoprire ed apprezzare e, in vista delle – ormai – prossime vacanze, è una meta che vi raccomandiamo, potendo la stessa offrire itinerari e attrazioni davvero per tutti i gusti.
Fonti:
Bisiacaria
Cecchino
Maria Plozner Mentil
Perché Friulani e Triestini non vanno d’accordo?
Portatrici carniche
Tutela minoranze linguistiche
Tuti I., Fiore di Roccia, Longanesi, 2020.