Artemisia Gentileschi: l’arte di emanciparsi

Femminista ancor prima della nascita di questo termine, Gentileschi è una delle più importanti pittrici italiane che attraverso i suoi quadri e la sua determinazione ci ha lasciato un potente messaggio di sorellanza.

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Artemisia Lomi Gentileschi nasce a Roma nel 1593. Figlia di un importante artista dell’epoca, Orazio Gentileschi, sin da bambina eredita la passione del padre, cominciando a sfoggiare le sue abilità artistiche.

Nonostante l’innata bravura, sin dagli esordi nel mondo dell’arte Artemisia è costretta a pagare il prezzo di essere donna: la pittura ai tempi era considerata come una prerogativa unicamente maschile, motivo per cui Artemisia – sotto la pressione di suo padre – apprese l’arte all’interno delle mura domestiche, ove doveva occuparsi anche della cura della casa e dei fratelli essendo rimasta orfana a soli dodici anni.

L’ambiente fortemente maschilista dell’epoca segna profondamente la vita di Gentileschi, soprattutto a seguito dello stupro subito da Agostino Tassi, pittore e amico del padre che, dopo numerosi tentativi di approccio rifiutati, la violenta.

Orazio Gentileschi, pur conscio della violenza subita dalla figlia, tace davanti alla promessa di un matrimonio riparatore – sono ancora anni in cui lo stupro non era un’offesa verso la persona ma verso l’onore della famiglia. Un anno dopo, però, i Gentileschi scoprono che Tassi era già coniugato. Giunti a quel punto, l’unico modo per salvare il buon cognome della famiglia era quello di ricorrere per vie legali.

Il processo per Artemisia fu una violenza volta a comprovare un’altra violenza: false testimonianze, domande inquisitorie e umilianti, visite ginecologiche nelle quali il suo corpo divenne oggetto del morboso voyeurismo della popolazione romana. Artemisia fu sottoposta anche al supplizio della sibilla, una forma di tortura che consisteva nell’avvolgere le falangi alla base delle dita con cordicelle che venivano strette sempre di più fino a stritolarle, rischiando così di compromettere la carriera della giovane pittrice.

L’immenso coraggio e la risolutezza di Gentileschi, che si sottopose a ogni umiliazione possibile pur di difendere la sua persona, portò all’esito positivo del processo che dichiarò colpevole Agostino Tassi, condannandolo o a cinque anni di reclusione o all’allontanamento della città. Tuttavia, Tassi non scontò nessuna delle due pene godendo della protezione del Papa.

Chi invece fu costretta a lasciare la sua città natale fu Artemisia, la cui reputazione umana e artistica era ormai compromessa. Attraverso un matrimonio riparatore – panacea di tutti i mali – si trasferì a Firenze. Da questo momento in poi Artemisia, seppur con alcune difficoltà, riprese possesso della sua vita, lontana dal suo violentatore e dall’egemonia di suo padre, diventando anche la prima donna ad essere ammessa all’Accademia delle Arti e del Disegno.

Ciò che colpisce di Artemisia è la sua immensa forza e passione, motori della sua lotta alla giustizia e della sua emancipazione (i primi quadri dipinti a Firenze furono firmati come Artemisia Lomi, lasciando il Gentileschi a suo padre).

Tra le tantissime opere dell’artista ce ne sono due, in particolare, che personalmente sono potentissime.  

Susanna e i Vecchioni, Artemisia Gentileschi

Susanna e i Vecchioni (Roma, 1610): dipinto un anno prima dello stupro, sembra quasi un’anticipazione delle vicende di vita di Artemisia.

La storia di Susanna – presente nel Vecchio Testamento – racconta della violenza sessuale subita dalla donna, costretta a tacere per salvare la propria reputazione.

Inoltre, il modo in cui i due vecchi sussurrano all’orecchio della ragazza, nuda e indifesa, sembrano una rappresentazione delle cattiverie di cui la giovane Gentileschi è stata vittima.

Giuditta che decapita Oloferne, Artemisia Gentileschi

Giuditta che decapita Oloferne (Roma, 1612 – 1613): dipinto durante il processo per stupro, è la trasposizione artistica del trauma vissuto da Gentileschi.

È la sua storia di vendetta, cruda come la violenza che lei ha vissuto.

Ciò che colpisce in questo quadro è il fatto che Giuditta non è sola nel farsi giustizia, assieme a lei vi è la sua ancella. Artemisia rappresenta la sorellanza ancora prima del femminismo, del #metoo, del “sorella io ti credo”, perché per combattere la violenza ci vuole l’unione di tutt* noi!  

Se anche voi avete intravisto in Artemisia Gentileschi una super fika, vi lasciamo due consigli per approfondire la sua storia:

  • Libro: La passione di Artemisia, Susan Vreeland, Ed. Beat (2010)
  • Film: Artemisia, Passione estrema di Agnès Merlet (1998)


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